[Per tornare alla pagina d'ingresso]
Malgrado le molte affinità tra quei testi, contengono abbastanza divergenze per aver alimentato una piccola industria dell'erudizione. Le diverse recensioni del Dhp Pali contengono tante letture varianti da non esserci ancora -- dopo persino più di un secolo di erudizione occidentale sul soggetto -- una sola edizione che le copra tutte. Le divergenze tra le versioni Pali e non-Pali son persino maggiori. Organizzano i versi in ordini diversi, ognuna contenendo versi che non si trovano nelle altre, e tra i versi nelle diverse versioni che sono infatti affini, le affinità in termini di iconografia o di messaggio sono a volte tenue assai.
Fortunatamente per chiunque che gardasse verso il Dhp per una guida spirituale, le differenze tra le diverse recensioni -- benché numerose -- vanno dal minore assai al minorissimo. A prescindere da qualche ovvii errori da copista, nessuna cade al di fuori dal campo che è stato da lungo tempo accettato in quanto standard della dottrina buddhista primitiva, così come viene derivata dai discorsi Pali. Ad esempio, fuoriesce il latte nel versetto 71, o viene cagliato? Il legame nel versetto 346 è sottile, lento, o elastico? Il brahmano nel versetto 393 sarà felice, o puro? Praticamente, tali domande non hanno importanza. Diventano importanti solo quando uno viene forzato di schierarsi nella scelta di una versione da tradurre, e persino lì, la natura dello schieramento è pari a quello di un direttore che sta decidendo quale versione di un oratorio di Haendel scegliere per un concerto.
Purtroppo per il traduttore, pero, le discussioni erudite che hanno cresciuto attorno a quei problemi hanno teso a soffiarle tutte fuori proporzioni, sino al punto di questionare l'autenticità dell'assieme del Dhp. Siccome gli studiosi che si sono devoti a questo soggetto hanno offerto tante opinioni così contradittorie per il potenziale traduttore -- ivi compreso il suggerimento che sarebbe una perdita di tempo persino tradurre taluni dei versetti -- ci vuole setacciare tra le discussioni per vedere cosa, semmai, esiste di valido nella guida che ci offrono.
Chi ha lavorato sui problemi sollevati dalle versioni varianti del Dhp ha, alla larga, diretto la discussione nella direzione di scoprire quale è la versione più antica e più autentica, e quali sono posteriori e più corrotte. Per mancanza di marchi esterni colle quale paragonare le versioni, gli studiosi hanno tentato di ricostruire quella che deve esser stata la versione più primitiva, triangolando tra i stessi testi. Tale trigonometria testuale tende a basarsi su postulati che si trovano tra i seguenti tre tipi:
1) Postulati rispetto a quel che è inerentemente una forma più antica o posteriore di un versetto. Tali postulati sono i meno affidabili dei tre, poiché non comprendono criteri oggettivi alcuni. Se, ad esempio, due versioni di un versetto differiscono in ciò che uno è più internamente consistente dall'altro, la versione consistente sembrerà più genuina ad uno studioso, mentre un altro attribuirà la consistenza a sforzi tardivi per "ripulire" i versi. Allo stesso modo, se una versione contiene una resa di un verso diversa da tutte le altre rese dello stesso verso, uno studioso lo vedrà quanto segno di una devianza; tale altro, in quanto segno dell'autenticità che avrà potuto antecedere una standardizzazione ulteriore tra i testi. Cosicché le conclusioni tratte dai diversi studiosi, basate su di questi postulati, ci dicono di più sulle presupposizioni degli studiosi quanto sugli stessi testi.
2) Postulati rispetto al metro dei versi di cui si tratta. Uno dei grandi progressi nello studio recente del Pali è stato la riscoperta delle regole metriche sottostanti alla poesia pali antica. Come viete citato lo stesso Buddha, dicendo: "Il metro è la basi strutturale dei versi." (S.I.60) La conoscenza delle regole metriche aiuta dunque un compilatore o un traduttore a evidenziare quali letture di un versetto deviano dalla struttura di un metro standard, e quali lo seguono. In teoria, la scelta più ovvia sarebbe di adoperare quest'ultima e rigettare la prima. Purtroppo, in pratica, la faciendo non è così semplice. La poesia Pali antica data di un'epoca di grande sperimentazione metrica, e quindi c'è sempre la possibilità che un poema specifico sia stato composto in un metro sperimentale che non abbia mai raggiunto un ampio riconoscimento. Vi è pure la possibilità che -- siccome la poesia era spontanea e orale -- una bella proporzione di licenza metrica fosse stata ammessa. Questo significa che le forme "più corrette" di un versetto possano esser state il prodotto di tentativi ulteriori per inserire il poema nelle forme standard. Così, le conclusioni basate sul postulato di metri standardizzati non sono del tutto così affidabili quanto lo potesse sembrare.
3) Postulati rispetto alla lingua nella quale venne composto il Dhp originale. Tali postulati richiedono una conoscenza estensiva dei dialetti Indici Medii. Uno studioso assumerà che tale dialetto specifico sarà stato la lingua di origine del testo, e porrà inoltre altri postulati sui tipi di errori di traduzione che potessero esser stati abituali nella traduzione da questo dialetto nei linguaggi dei testi che abbiamo ora. La trigonometria testuale basata su di questi postulati implica spesso metodi complicatissimi di visualizzare e di computare tali da poter produrre una versione "originale" del testo che sia proprio quella che è: originalissima, coincidendo con nessuna delle versioni esistenti. Altrimenti detto, laddove i varianti abituali di un versetto potessero leggersi a, b, e c, il postulato addizionale sulla lingua di origine del Dhp e l'inezia dei vecchi traduttori e copisti portano alla conclusione che il versetto dovesse esser stato d. Tuttavia, malgrado tutta l'impressionante erudizione implicata da questo metodo, neanche lo studioso più colto può dare prova qualsiasi di ciò che possa esser stata la lingua di origine del Dhp. Infatti, come lo considereremo qui sotto, è persino possibile che il Buddha -- ammettendo che sia stato l'autore di questi versetti -- composasse poesia in più di una lingua, e più di una sola versione di un versetto specifico. Così, come per il primo postulato, i metodi di triangolazione basati su di una postulata lingua di origine del Dhp ci dicono di più sulla posizione di uno studioso specifico quanto sulla posizione del testo stesso.
Così, benché l'erudizione devota alle diverse recensioni del Dhp ci hanno fornito un servizio utile nella riesumazione di tante letture varianti del testo, nessuno dei postulati usati nel tentativo setacciare attraverso queste letture del Dhp di "origine" è riuscito a dimostrasi conclusivo. Il loro successo positivo si è limitato all'offrire materia da specolazione accademica ed indovinelli colti. Dal lato negativo pero, sono riusciti nel compiere qualcosa totalmente inutile: un sentimento generale di diffidenza rispetto ai testi buddhisti primitivi, e particolarmente per i testi poetici. Se i testi contengono tante varianti diverse, si potrebbe pensare, e se i loro traduttori e trasmittori furono così incompetenti, come potremmo mai dargli fiducia alcuna? Tale diffidenza proviene dall'accettare, inconsciamente, i postulati rispetto all'autore e all'autenticità nei quali opera la nostra coltura moderna, predominantemente letterata: che una sola versione di un versetto può esser stata composta dall'autore di origine, e che tutte le altre versioni debbano essere corruzioni ulteriori. Nela faccenda del Dhp, questo equivale a postulare che ci fu una sola versione originale di questo testo, e fu composto in una sola lingua.
Tuttavia, tali postulati sono totalmente inadeguati nell'analisi della coltura orale in cui insegnava il Buddha e in cui i versetti del Dhp furono dapprima antologizzati. Se si bada con cura alla natura di tale coltura -- e particolarmente ad affermazioni chiare nei testi buddhisti antichi rispetto agli avvenimenti e principi che diedero forma a questi testi -- si vedrà che è perfettamente naturale che ci siano stati diversi resoconti degl'insegnamenti del Buddha, ognuno di quelli essenzialmente corretto. Rispetto al Dhp, si può considerare le versioni molteplici del testo quanto segno, non di una trasmissione difettosa, ma bensì di una ubbidienza alla loro origine orale.
La prosa orale e la poesia sono molto diversi dalle loro controparti scritte. Questo fatto è ovvio persino nella nostra coltura. Eppure, dobbiamo fare uno sforzo attivo dell'immaginazione per capire le attese che mettono nella trasmissione orale i parlanti ed uditori di una coltura in cui non c'è parola scritta sulla quale ricadere. En una situazione tale, l'eredità verbale si mantiene totalmente grazie alla repetizione ed alla memorizzazione. Un oratore con delle cose nuove da dire lo ripeterà spesso a pubblici diversi -- i quali, se inspirati dal messaggio, ne memorizzeranno almeno le parti essenziali. Siccome la comunicazione è faccia a faccia, un oratore sarà particolarmente pregiato per una capacità a disporre il suo messaggio adeguatamente al momento della comunicazione, in termini del retroscena del pubblico, il suo passato, lo stato mentale presente ed i benefici aspettati per il futuro.
Questo mette un imperativo doppio su di ambedue l'oratore e l'uditore. L'oratore deve scegliere le parole con occhio e al come toccheranno il pubblico nel presente, e al come verranno memorizzati per riferimento futuro. L'uditore deve essere attento, anche per apprezzare l'impatto immediato delle parole, e per memorizzarle ad uso futuro. Benché venga apprezzata l'originalità nell'insegnamento, è una sola delle costellazioni di virtu cui si aspetta da un insegnante. Altre virtù aspettate includono una conoscenza della coltura comuna ed una capacità a giocare con tale conoscenza allo scopo dell'effeto desiderato in termini d'impatto immediato o di memorabilità. Il Dhp Pali (versetto 45) stesso insiste su di questo punto, col paragonare l'atto d'insegnare, non al creare qualcosa totalemente nuovo, fuori dal nulla, ma bensì al scegliere tra vari fiori per creare un gradevole arrangiamento proprio per l'occasione.
Certo, ci stanno nelle colture orali situazioni in cui ossia l'impatto immediato ossia la memorabilità vengono sottolineate a detrimento l'uno dell'otro. In una classe, l'ascoltare per l'impatto viene sacrificato ai bisogni dell'ascoltare per la memorizzazione, mentre in a teatro, l'enfasi viene rovesciata. Tutto indica pero che il Buddha era un insegnante particolarmente vivo in ambedue gli aspetti della comunicazione orale, e che allenava i suoi uditori ad essere vivi in ambedue pure loro. D'altronde, lo stile repetitivo di tanti dei suoi insegnamenti riportati sembra esser stato diretto al rendergli facili da memorizzare; anche, al fine di parecchi dei suoi discorsi, compendiava i punti principali della discussione in un versetto facile da memorizzare. D'altra parte, ci sono parecchie occorrenze in cui gli uditori ottenevano il Risveglio immediato all'ascoltare alle sue parole. Eppoi, c'è una sezione deliziosa in uno dei suoi discorsi (il Samaññaphala Suttanta, D.2) beffando gl'insegnanti di altre sette religiose per la loro incapacità di rompere col modo formulistico dei loro insegnamenti, per dare una risposta diretta a domande specifiche ("E' come se, quando gli si fa una domanda a proposito di un mango, uno dovesse rispondere con la frutta dell'albero da pane," commenta uno degl'interlocutori, "o, a una domanda sulla frutta dell'albero da pane, rispondesse con un mango.") Il Buddha, in contrasto, era famoso per la sua abilità a rispondere direttamente ai bisogni del suo uditore.
Tale sensibilità ad ambedue l'impatto presente e l'uso futuro sta in linea con due ben conosciuti insegnamenti buddhisti: Prima, il principio buddhista di base della causalità, che ogni atto ha ripercussioni ambe nel presente ed nel futuro; secondo, la realizzazione del Buddha, agl'inizî della sua carriera di insegnante, che taluni dei suoi uditori otterrebbero il Risveglio al mero sentire le sue parole, mentre altri non potrebbero risvegliarsi tranne l'aver preso, contemplato e messo in pratica prolungata le sue parole.
Un esame dei discorsi in prosa del Buddha ricordati nel Canone Pali da un'idea del come il Buddha s adeguava alle doppie domande ad egli fatte in quanto insegnante. In certi casi, per rispondere ad una situazione specifica, formulava un insegnamento totalmente originale. In altre, si accontentava di ripetere una risposta formulaica mantenuta in riserva per uso generale: ossia insegnamenti propri a lui, ossia insegnamenti più tradizionali -- a volte leggermente arrangiati, a volte no -- che collimavano col suo messaggio. In altri ancora, usava di pezzi formulaici e gli ricombinava in un modo nuovo a secondo ai suoi bisogni. Un esame della sua poesia rivela lo stesso ambito di materiale: opere originali; pezzi già fatti -- originali o imprestati, occasionalmente alterati in linea coll'occasione; e riciclaggi di vecchi frammenti in nuove giustapposizioni.
Quindi, benché insistette il Buddha che tutti i suoi insegnamenti avessero lo stesso gusto -- quello della liberazione -- insegnava diverse variazioni sul tema di quel gusto a diverse persone in diverse occasioni, in linea colla sua percezione dei loro bisogni a lungo e corto termine. Nel recitare un verso ad una particolare udienza, poteva cambiare una parola, una linea o un'immagine, per aggiustarsi alle loro retroscene ed i loro bisogni individuali.
Aggiunto a quel potenziale di varietà, c'era il fatto che la gente dell'India del norte a quell'epoca, parlasse un numero di dialetti varii, ognuno colla sua propria tradizione di poesia e di prosa. Il Pali Cullavagga (V.33.1) riporta l'insistenza del Buddha che i suoi uditori memorizzassero i suoi insegnamenti, non in una lingua franca standardizzata, ma nei loro propri dialetti. Non c'è modo di sapere se egli stesso fosse abbastanza multilinguo per insegnare ad ognuno dei suoi allievi ognuno nel suo dialetto, o se si aspettasse che loro stessi ne fecessero le traduzioni. Tuttavia, pare verosimile che, in quanto aristocrata ben educato dell'epoca, egli fosse stato ad agio in al minimo tre dei dialetti più importanti. Taluni dei discorsi -- come il D. 21 -- dipingono il Buddha in quanto conoscitore articolato di poesia e di canzone, possiamo quindi aspettarci di lui che fosse stato sensibile ai problemi speciali della traduzione effettiva della poesia -- sveglio, ad esempio, al fatto che la traduzione abile richiere più della semplice sostituzione dui parole equivalenti. Il Mahavagga (V.13.9) riferisce che il Buddha ascoltava, con apprezzamento, un monaco del paese meridionale dell'Avanti recitare taluni dei suoi insegnamenti -- apparentemente nel dialetto Avanti -- in presenza sua. Benché studiosi hanno spesso sollevato questioni rispetto alla lingua nella quale parlasse il Buddha, potrebbe essere più adeguato restare aperti alla possibilità che parlasse -- e componesse poesia in -- parecchi dialetti. Tale possibilità rende la questione de "La" lingua originale o de "Il" testo originale del Dhp un poco irrelevante.
I testi suggeriscono che persino durante la vita del Buddha, i suoi studenti facevano sforzi per collezionare e memorizzare i suoi insegnamenti sotto una rubrica in nove categorie: dialoghi, narrativi di prosa e versi mescolati, spiegazioni, versi, exclamazioni spontanee, citazioni, storie di nascita, avvenimenti straordinari, sessioni di domande e risposte. Tuttavia, l'atto di collezionare e memorizzare fu proseguito da un sub-gruppo solo tramite questi monaci, mentre altri monaci, monache e gente laica, senz'altro avevano le loro memorie personali degl'insegnamenti, distintamente uditi direttamente dal Buddha, o indirettamente attraverso i resoconti dei loro amici e conoscenti.
Il Buddha fu abbastanza lungimirante per assicurarsi che questo fondo meno standardizzato di memorie non venne disprezzato da le generazioni future; allo stesso tempo, egli stabilì normative per impedire che resoconti erronei, deviando dai principi dei suoi insegnamenti, non vennero ammessi ad infiltrarsi nell'accettato corpo della dottrina. Per scorragiare i resoconti fabbricati, avvertì che chiunque mettesse parole nella sua bocca lo stava calunniando (AN II.23). Questo pero non poteva in modo alcuno impedire i resoconti erronei fondati su di una comprensione sbagliata ma onesta. Quindi, poco prima della morte, riassuntò i principi basici dei suoi insegnamenti,: le 37 Ali al Risveglio (bodhi-pakkhiya dhamma -- vedi nota al verseto 301) nel quadro generale dello sviluppo della virtù, della concentrazione e del discernimento, che portano alla liberazione. Annunciò allora le norme generiche con le quali dovettero venir giudicati i resoconti dei suoi insegnamenti. Il Maha-parinibbana Suttanta (D.16) lo cita dicendo:
"C'è il caso in cui un monaco dice così: 'In presenza del Beato, ho sentito questo, in presenza del Beato ho ricevuto questo... In presenza di una communità di anziani ben conosciuti... In un monastero con parecchi anziani dotti che conoscono la tradizione... In presenza di un singolo anziano che conosce la tradizione, ho sentito questo, nella sua presenza ho ricevuto questo: Questo è il Dhamma, questo è il Vinaya, questo è l'istruzione dell'Insegnante.' Non si deve né approvare né disprezzare la sua affermazione. Senza approvazione né disprezzamento, si prenda accuratamente nota delle sue parole e le si paragoni ai discorsi e gli si verifichi col Vinaya. Se, paragonandogli ai discorsi e verificandogli col Vinaya, si trovi che non tengono il paragone né vengono verificate dal Vinaya, si può concludere: 'Questa non è parola del Beato; questo monaco l'ha malintesa' -- e la si deve respingere. Ma se... tengono il paragone e vengono verificate dal Vinaya, si può concludere: 'Questa è parola del Beato; questo monaco l'ha intesa correttamente.'"
Così, un resoconto degl'insegnamenti del Buddha si doveva giudicare, non dall'autorità di chi riportasse né delle sue fonti, ma sul principio di consistenza: s'inseriva con quel ch'era già conosciuto della dottrina? Questo principio era disegnato per assicurare che niente che dissentisse dall'originale potesse venir accettato nel canone standard, ma apriva la possibilità ch'insegnamenti in linea con quelli del Buddha pur non pronunciati da lui, potessero trovarci un entrata. Gli antichi redattori del canone sembrano esser stati avvertiti da questa possibilità, pur non essendone esaggeratamente preoccupati. Come lo faceva spesso notare il Buddha stesso, non aveva ideato né creato il Dhamma. Lo aveva semplicemente trovato nella natura. Chiunque sviluppasse il livello di forze e capacità mentali che ci vuole per il Risveglio potrebbe scoprire i medesimi principî. Così, il Dhamma era in nessun modo suo esclusivamente.
Tale atteggiamento venne trasportato nei passaggi del Vinaya che cita quattro categorie di discorsi di Dhamma: detti dal Buddha, detti dai suoi discepoli, detti da veggenti (saggi non-Buddhisti), detti da esseri celesti. Finché un discorso fosse in accordo coi principì di base, la questione di chi lo avesse per primo riportato non importava. In una coltura orale, dove un discorso può venir associato ad una persona a ragione del suo averlo fatto, approbato, ripetuto con frequenza, o ispirato tra le sue parole o azioni, il problema della paternità non era la preoccupazione predominante che è oggi diventata nelle colture letterate. La recente scoperta delle prove che un numero d'insegnamenti associati col Buddha potessero esser stati pre- o post-datati rispetto alla sua epoca non avrebbe turbato per niente i primi buddhisti, in quanto quegli insegnamenti fossero in accordo con i principî originali.
Poco dopo il decesso del Buddha, dice il Cullavagga (XI), i suoi discepoli s'incontrarono per mettersi d'accordo su di un canone standardizzato dei suoi insegnamenti, abandonando la classificazione anteriore in nove parti ed organizzando il materiale in qualcosa somigliando al canone che abbiamo oggi. E' chiaro dai documenti che certi dei passaggi del presente canone non risalgono alla prima convocazione, siccome riportano incidenti che occorrerono posteriormente. La questione che naturalmente risale è di sapere se ci sono altre addizioni ulteriori meno ovvie. Questa questione è particolarmente rilevante rispetto a testi come il Dhp, la cui organizzazione differisce considerevolmente da redazione a redazione, e naturalmente porta ad un'altra questione sul sapere se un'addizione ulteriore al canone potesse venir considerata autentica. Il Cullavagga (XI.1.11) riferisce di un incidente che chiarisce questo problema:
Ora a quell'epoca, il Ven. Purana stava in giro nelle Colline Meridionali con una grande comunità di monaci, circa 500 in tutto. Allora, avendo dimorato quanto volessero nelle Colline Meridionali mentre i monaci anziani stavano standardizzando il Dhamma ed il Vinaya, andò al Parco dei Bambù, il Santuario degli Scoiattoli, in Rajagaha. All' arrivo, se ne andò dai monaci anziani e, dopo l'aver scambiato gli ossequi, sedette da un lato. Com'era seduto lì, gli dissero, "Amico Purana, il Dhamma e Vinaya è stato standardizzato dagli anziani. Adeguati alla loro standardizzazione." [Egli rispose:] "Il Dhamma e Vinaya è stato standardizzato bene dagli anziani. Eppure, mi atterrò semplicemente a quel che ho sentito e ricevuto in presenza del Beato."
Altrimenti detto, il Ven. Purana sosteneva -- e senz'altro insegnava ai suoi seguaci -- una relazione degl'insegnamenti del Buddha che stava al di fuori della versione standardizzata, ma era nondimeno autentica. Come lo abbiamo già notato, c'erano monaci, monache e laici come lui persino quando era vivo il Buddha, e c'erano probabilmente atlri come lui che continuarono ad insegnare memorie personali degl'insegnamenti Buddha anche dopo della morte di questi. Questa storia mostra l'atteggiamento ufficiale tra i buddhisti primitivi rispetto a tali tradizioni diverse: ognuno accettava l'affidabilità degli altri. Col passar del tempo, talune delle comunità primitive possono aver fatto uno sforzo per includere queste relazioni "esterne" al canone standardizzato, col risultato di svariate collezioni di passaggi in prosa e versi. L'ambito di tale collezioni sarebbe stato determinato dal materiale ch'era disponibile, o potesse venir effettivamente tradotto in ogni dialetto individuale. La loro organizzazione dipendendo sul gusto e l'abilità dei collezionisti individuali.
Così ad esempio, troviamo versi nel Dhp Pali, che non esistono in altri Dhp, lo stesso di versi nei Dhp Gandhari e di Patna che la tradizione Pali mettono nel Jataka o il Sutta Nipata. Si trovano pure versi in una redazione composti di linee sparse attraverso svariati altri versi in un altro. Ad ogni modo, il fatto che un testo fosse un'adizione ulteriore al canone standardizzato non significa necessariamente che fosse stato un'invenzione ulteriore. Visto il modo ad hoc in cui il Buddha a volte insegnava, e la natura sparsa delle comunità che memorizzavano i suoi insegnamenti, le addizioni posteriore ai canoni possono semplicemente rapprensentare tradizioni primitive che avessero scappato alla standardizzazione fino a relativamente tardi.
Quando i Buddhisti si misero ad affidare i loro canoni alla scrittura, circa agl'inizî dell'era comune, portarono un cambio tremendo alla dinamica di come le loro tradizioni si erano mantenute. I vantaggi della trasmissione scritta rispetto a quella orale sono ovvi: i testi vengono salvati dai capricci della memoria umana a lungo termine e non muoiono se coloro che gli memorizzarono muoiono prima dell'aver insegnato ad altri di memorizzargli pure. I svantaggi della trasmissione scritta, d'altronde, sono meno ovvî ma non meno reali. Non solo c'è la possibilità degli errori scribali, ma -- siccome la trasmissione non è faccia a faccia -- ci può essere persino il sospetto dell'errore scribale. Se una lettura sembra strana ad uno studente, non ha nessun modo di verificare col copista, forse distante di parecchie generazioni, per vedere se la lettura fosse proprio stata un errore. Quando si vede confrontato con tali problemi, può "correggere" la lettura per farla coincidere colle sue idee di quello che debba esser corretto, persino in casi dove la lettura fosse corretta e la sua percetta estraneità fosse soltanto il risultato di cambi nel dialetto parlato o della sua limitatezza di conoscenze e di immaginazione. Il fatto che manoscritti di altre versioni del testo fossero stati disponibili per paragone in tale occorrenze potesse portare copisti ad omogeneizzare i testi, togliendo varianti inabituali persino quando i varianti stessi potessero risalire ai giorni più remoti della tradizione.
Queste considerazioni del modo in cui il Dhp possa esser stato trasmesso fino ad oggi -- e particolarmente la possibilità che that (1) recensioni varianti potessero essere tutte autentiche, e che (2) accordi tra recensioni potessero essere risultato di ulteriore omogeneizzazione -- (fanno sicché) la vera prova della lettura sta nel fatto che il lettore si senta impegnato assuficienza dai versi per mettere in pratica i loro principî e trovare che conducono effettivamente alla liberazione insegnata dal Buddha. In analisi finale conta nient'altro.
[Per tornare alla pagina d'ingresso]
Per leggere il testo originale:
http://www.accesstoinsight.org/canon/sutta/khuddaka/dhp/history.html